AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO AL POSTO DELL’INTERDIZIONE: SI PUO’ ( E SI DEVE)!
Amministrazione di sostegno al posto dell’interdizione: si può! – Decreto G.T. di Vercelli – Daniela Infantino.
Pregevole il decreto del Giudice Tutelare di Vercelli di data 28 dicembre 2016, con il quale si ritiene che non debba essere disposta l’apertura della tutela, ma debba essere bensì istituita l’amministrazione di sostegno. Al di là della circostanza processuale del caso di specie, che vede disposta l’apertura della tutela nei confronti di un soggetto maggiorenne da parte del Tribunale dei Minorenni, il quale avrebbe dovuto quindi abdicare al suo potere di decidere in favore del Tribunale ordinario, il dato sostanziale parte dall’ormai consolidato principio della Corte di Cassazione secondo cui “la misura dell’amministrazione di sostegno è prevista in via generale quale strumento di protezione dei soggetti privi di autonomia, in considerazione della sua duttilità e minore limitazione della capacità di agire del beneficiario” (Cass. 22332/2011 e 18171/2013, superata da Cass. 17962/2015), nonché varie pronunce di merito tra cui Trib. Pinerolo 4 novembre 2004, Trib. Vercelli 31 ottobre 2014, Trib. Lecce 3 agosto 2016 ecc.). L’amministrazione di sostegno, secondo la disamina del Giudice, “è maggiormente protettiva del soggetto bisognoso, non per sterili ragioni etiche e filosofiche, ma in forza di una meditata analisi degli istituti di diritto positivo”. (Richiamo all’art. 411 c.c., ai vantaggi processuali, economici, fiscali, nonché alla eventualità di estendere gli effetti limitativi o decadenziali dell’interdizione anche all’ads). Ne deriva dunque che “ ben può affermarsi la marcatamente maggiore adeguatezza dell’amministrazione di sostegno, rispetto alla tutela, con riferimento alla totalità delle situazioni di bisogno.” Il decreto di nomina dell’Ads risulta tecnico, dettagliato, preciso nella elencazione degli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione che l’AdS potrà compiere nel noto intreccio dello Scooby-doo, ovvero nella cura personae, nella cura patrimonii e nelle scelte di ordine sanitario. Ancora poche purtroppo le istanze di revoca dell’interdizione con il passaggio allo strumento più consono con la dignità umana dell’amministrazione di sostegno. Di provvedimenti di tal fatta ce ne dovrebbero essere molti ma molti di più!
Di seguito un’articolo scritto dalla Presidente della nostra Associazione Silvia Hoeck sul sito www.personaedanno.it
IO SONO – IO VOGLIO – IO AMO
Nel 1978, negli Stati Uniti – a cura della National Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research (Commissione nazionale di ricerca biomedicale e comportamentale per la protezione dei soggetti umani) – venne pubblicato il rapporto Belmont.
In questo rapporto vengono individuati i quattro principi della bioetica:
1. Il principio dell’autonomia;
2. Il principio del bene della persona;
3. Il principio del non nocumento;
4. Il principio di giustizia.
Il principio dell’autonomia afferma che ciascun paziente è una persona autonoma, vale a dire capace di effettuare scelte e di prendere decisioni, e da qui deriva la regola del consenso informato.
Il principio del bene della persona pone l’attenzione sul rapporto tra rischi e benefici delle differenti azioni di cura.
Il principio di “non nocumento” riafferma il “primum non nocere”, già presente nel giuramento di Ippocrate.
Il principio di giustizia si sostanzia nel non discriminare e nel non privilegiare alcuno, in modo da regolare, senza nessuna disparità di trattamento, l’assegnazione delle risorse e dei mezzi limitati, rispetto ai bisogni, (basta riflettere a come è regolamentata l’attività dei trapianti di organi).
L’obbiettivo è quello di impedire la formazione di sacche di emarginazione, soprattutto per categorie di “diversa abilità” e di varia fragilità.
Questi principi riguardano l’obbiettivo, rappresentato sempre dal concetto di “persona” cosciente, informata, educata e libera nello scegliere, quindi capace di autodeterminarsi.
Questa capacità di autodeterminarsi della persona si sviluppa per tutto il corso della vita; purtroppo, alcune persone la perdono totalmente, o in parte, a causa di malattie che ne comprimono in modo considerevole, se non addirittura definitivo, la capacità di libera determinazione .
E’ da qui che deriva la “ghettizzazione istituzionale” che si sostanzia nell’istituto dell’ incapacità di agire per interdizione o inabilitazione e che trasforma la persona da soggetto bisognoso di cure a mero oggetto di tutela.
Ritengo che i su indicati principi bioetici ci portino a ragionare sulle ancora irrisolte problematiche inerenti i concetti di “persona”, “normalità” e “giustizia”, i cui deficit applicativi, purtroppo, trovano quotidiana sperimentazione nella difficoltà di realizzazione dei progetti di “Vita Indipendente” per tante persone ora emarginate.
Per molto, troppo tempo, ai soggetti disabili è stata negata una vita libera e scevra da ostacoli a causa di una sorta di “censura preventiva”: basti pensare alle difficoltà che queste vite debbono affrontare quotidianamente, contando per lo più sull’ambiente familiare.
Si tratta di argomenti scomodi che, in via del tutto insensibile e superficiale, si è tentato di rimuovere con tutte le forze, nella speranza che non debbono mai riguardarci da vicino. Alla disabilità, alla fragilità non basta il carico di dolore e sofferenze correlate, ma è come se debba essere accompagnata da una “damnatio memoriae” che colpisce innocenti, ai quali si nega l’attributo di normalità se non addirittura quello “di persona”. Persone condannate ad un’ esistenza senza riconoscimento identitario, perché per molto tempo non si è voluto prendere atto che solo una frazione della comunicazione umana è una comunicazione verbale, la cui carenza non significa necessariamente incapacità di ascolto.
Come esseri umani non possiamo, nel modo più assoluto, accettare una condizione di non soggettività “ identitaria” per persone penalizzate da una sorte ingiusta e da una anacronistica e antiscientifica marginalizzazione giuridica, nella presunzione di una chiusura in un mondo senza coscienza, senza desideri, senza volontà.
Con tutte le forze che abbiamo a disposizione, bisogna in tutti modi evitare che qualcuno si senta
estraneo alla propria vita, in quella deriva dell’esistere che consiste nell’ assistere allo scorrere dei giorni in assenza di sé, senza esserne o sentirsi coinvolti, quell’insipido scorrere dei giorni dove esserci o non esserci è la stessa cosa.
Al giorno d’oggi, sempre più di frequente, siamo abituati a sentir parlare su tutto, senza reticenze, e molto spesso senza quel rispetto, quel pudore che sarebbero doverosi quando si affrontano gli aspetti più delicati della libertà e della qualità di vita.
I soggetti disabili, ed in particolare le persone giuridicamente interdette, sono costrette nel silenzio della loro solitudine, sullo sfondo di un’esistenza cui è negato lo scopo della vita stessa, ad eccezione dell’amore dei loro cari, ai quali danno molto di più di quanto ricevono in termini di cure ed assistenza.
Queste persone hanno delle ferite profonde che nascondono, non mostrano di rincorrere la vita come fanno le persone sane, i normali. Secondo il comune sentire è proprio così? È questa la loro realtà? È quella che costruiamo per comodità noi, i così detti sani, i così detti normali? Perché non vogliamo cogliere cosa c’è dietro quel gesto di mani che cercano le nostre mani per stringerle forte in una ricerca di intesa, di vibrazione dei cuori su un arcobaleno d’amore ?
I nostri figli fragili sono isole alla ricerca di contatto con altre isole di umanità, e per questo occorrono “ponti mentali” più forti e resistenti dei ponti in ferro o in pietra.
Il silenzio va rotto definitivamente con un’assunzione di responsabilità collettiva ed individuale e che non sia solo quella della famiglia, per ridare dignità di persona a coloro che vivono emarginati, perché dichiarati, per legge, incapaci ed interdetti.
C’è urgente bisogno di un nuovo umanesimo che ponga rimedio e fine alle ancora troppe e gravi offese che vengono perpetrate nei confronti della qualità della vita di tanti soggetti fragili, ai quali si nega il diritto di dire: ”Io sono”, “io voglio”, “io amo”, a causa di troppe persone che ancora, al giorno d’oggi, egoisticamente, non vogliono o non sanno ascoltare.
I progressi della scienza e della medicina, danno la possibilità di risolvere problemi che un tempo non avevano soluzioni, ma aumentano altresi gli interrogativi sulla vita, sulla libertà e sul senso del destino dell’uomo.
Le persone fragili, sono un àncora di umanità in un contesto sociale sempre più disumanizzato a causa del prevalere di una logica di tipo meccanicistico ed efficientista, che porta ad escludere troppi individui senza colpa.