Il Diritto di scelta dei minori nel fine vita: un movimento di intenti

Brevi riflessioni su “Il diritto di scelta dei minori nel fine vita: un movimento di intenti”, ovvero la giurisprudenza incontra l’autodeterminazione dei bambini e il loro diritto di fare delle scelte consapevoli.

E’ da diversi decenni che il diritto presta particolare attenzione ai minori.

Il minore è un soggetto che si trova in condizioni di particolare debolezza e perciò appare meritevole di una particolare considerazione e di uno specifico aiuto, per vedere facilitato il suo itinerario maturato e il suo progressivo inserimento nella comunità sociale in cui è chiamato a vivere.

D’altro canto egli è anche un soggetto fragile, vulnerabile, che incontra il limite della soglia formale del riconoscimento della capacità di agire, che come sappiamo si acquista con il compimento della maggiore età, ovvero 18 anni.

Non è questo il luogo per approfondire il problema legato alla evoluzione delle categorie che la giurisprudenza ha elaborato in relazione alla definizione di “capacità”, (capacità di agire – capacità legale – capacità naturale – capacità di discernimento), che comunque, come vedremo, è il fulcro centrale del principio di autodeterminazione legato al consenso informato, alle D.A.T., alla pianificazione anticipata delle cure.

Ad ogni modo la legge 22 dicembre 2017 n.219 “Norme in materia di consenso informato e direttive anticipate di trattamento” ha avuto un approccio garantista, facendo riferimento appunto all’antico formale concetto di capacità di agire, ovvero laddove il soggetto è incapace di agire, la sua volontà viene sostituita da un altro soggetto.

 

L’articolo 3 della legge 219/2017, infatti, in maniera unitaria, accomuna gli interdetti giudiziali, i minori, gli inabilitati e i soggetti beneficiari di amministrazione di sostegno, in quanto, agli effetti del consenso/dissenso informato, la loro volontà è manifestata, al loro posto, da parte del rappresentante legale.

Tuttavia al comma 1 dell’articolo 3) si afferma “La persona minore di età ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui al comma 1 dell’articolo 1). Due passaggi importanti: la valorizzazione e il rispetto dei diritti. Partiamo da quest’ultimo assunto: il riferimento è ovviamente ai principi costituzionali, alle norme internazionali che per prime hanno riconosciuto un diritto per il minore ad avere dei diritti, ma anche alla normativa interna che ha adeguato le nuove norme ai principi di interesse, aspirazioni, volontà del minore. Certamente l’articolo 12 della Convenzione dei diritti del Fanciullo approvata il 20 novembre 1989 dell’Assemblea generale della Nazioni Unite rappresenta la stella polare, soprattutto con riferimento alla possibilità di riconoscere al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo debitamente prese in considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.

Il best interest – l’ascolto del minore – la dignità.

In pratica l’universo valoriale per il minore: ovvero la scelta fatta nel rispetto della sua capacità di comprensione: una sorta di emancipazione nell’esercizio dei diritti della personalità dalle soglie formali della capacità di agire. (che come abbiamo detto si acquisisce al 18° anno di età).

Proprio nell’ambito del principio di autodeterminazione vi sono ancora delle zone grigie e questioni aperte: il diritto di decidere se e come ricevere trattamenti terapeutici sul proprio corpo.

Tanti i principi e i soggetti in gioco: autodeterminazione dei minori – valutazioni dei genitori (spesso anche in contrasto tra loro) – intervento esterno giudiziale.

La scelta del legislatore del 2017 è sì quella di lasciare la decisione al genitore esercente la responsabilità genitoriale, ma con il limite/obbligo di valutare l’interesse della persona (best interest: si tratta più di una icona linguistica, un comodo pass partout), tenendo conto della sua volontà, della sua dignità e del livello di discernimento.

Infatti la legge, pur non riconoscendo in maniera diretta un diritto all’autodeterminazione sanitaria da esercitare in prima persona, arriva molto vicino, riconoscendo un diritto alla valorizzazione delle proprie capacità decisionali, all’informazione, all’espressione di una propria volontà, di cui bisognerà tenere conto.

Probabilmente il legislatore anche in questo caso ha fatto riferimento alla giurisprudenza e in particolare ad un passaggio specifico della nota sentenza n. 21748/2007 della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione sul Caso Englaro in cui si dice che il tutore deve agire nell’interesse esclusivo dell’incapace, nella ricerca del best interest.

Anche al medico viene imposto di fornire le informazioni consone allo stato di incapacità del minore (incapace), per metterlo in condizioni di esprimere la sua volontà. L’informazione non deve essere standardizzata, anonima, opaca, ma un “vestito cucito su misura” per il minore/incapace, in modo da consentirgli di capire e volere, ove possa, sapere cosa fare di sé e della sua salute.

Così non è, come vedremo nell’intervento apposito, per le Disposizioni Anticipate di Trattamento, in cui la soglia formale della capacità è rilevante. Non assume infatti alcun rilievo il livello di discernimento. Il criterio preferibile sarebbe stato quello della capacità naturale che quindi non avrebbe escluso il grande minore, quale soggetto capace di discernimento, dalla stesura delle D.A.T. Stessa sorte per la pianificazione condivisa delle cure.

Entrano in gioco le contese tra “genitori versus figli” rispetto agli atti di cura, e quelle tra “genitori di minori versus sanitari”.

Tutti soggetti protagonisti a vario titolo, portatori non solo di un interesse individuale, ma anche rappresentanti di un diverso soggetto, il tutto nel rispetto del canone della dignità umana.

Il legislatore ha infatti previsto un intervento terzo da parte del Giudice nel caso in cui sorga un contrasto:

il comma 5 dell’articolo 3) stabilisce che “nel caso in cui il rappresentante legale del minore rifiuti le cure proposte ed il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al Giudice Tutelare”.

In tal caso la migliore risposta da parte del Giudice avverrà quando riuscirà a coinvolgere appieno tutti gli interessi, offrendo loro voce e dignità, facendoli emergere in tutta la loro reale consistenza, tentando quindi di bilanciarli ascoltando la concorde voce della scienza psicologica, psichiatrica, psicoanalitica, in quanto la decisione da prendere mette al centro l’essere umano. La dignità come super valore al quale il giudice, un buon giudice, deve attingere come fonte insostituibile e inesauribile.

Il giudice dovrà ispirarsi, in via prioritaria, al criterio soggettivo e volontaristico dell’autodeterminazione, e, in via secondaria, al criterio oggettivo del best interest.

Tuttavia il riferimento previsto dal comma 5 dell’articolo 3 non è appagante, in quanto presuppone o l’esistenza di un solo rappresentante o la concordia tra i genitori. (In questi due ultimi casi infatti la competenza a dirimere la controversia non potrà essere del Giudice Tutelare, bensì di altro organo giudicante, creando quindi non poche ipotesi di confusione).

In conclusione la legge 219/2017, che è stata definita una “buona legge buona”, con riferimento alla posizione del minore, lo sarà solo se dalla sua applicazione verrà garantita una effettiva tutela per il minore stesso.

La verifica dovrà essere fatta su due piani: da un lato mettendo a confronto la decisione del minore (limitatamente alla ipotesi in cui questi abbia raggiunto quella età tale da avere una adeguata capacità di discernimento) con quella dei genitori e dei medici.

La decisione del minore dovrà prevalere sulla scelta dei genitori.

Nel caso di raffronto delle decisioni con i medici bisognerà verificare se l’interesse cui i medici fanno riferimento sia realmente quello del paziente ovvero della struttura di ricovero.

La disciplina soddisfa il canone della ragionevolezza, statuendo una serie di principi e di regole e non precludendo al giudice – per il caso concreto – di estrapolare ulteriori regole in base alle caratteristiche precise.

Come diceva Dante nel canto XVI del Purgatorio “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”, e più di recente il prof. Paolo Zatti: “E’ una buona legge ma vi è il rischio che venga azzoppata dall’attuazione”.

Bisogna approfondire scambi, collaborazioni tra varie figure professionali, per trovare il modo di tradurre le nuove norme in prassi realizzabili.

24-04-2020

Avv. Daniela Infantino